lunedì 21 novembre 2011

Chiamiamolo "downshifting"


Senti come ti riempie la bocca questa bella parola! 
E’ sorella di “understatement” e cugina di “gap year”. 

Letteralmente “scalare le marce”, in pratica significa recuperare un modo di vivere meno consumistico, stressante e competitivo.

Se per qualche manager rampante questa è l’ennesima moda da seguire, basta guardarsi intorno per vedere che per molti di noi è una scelta obbligata.

Una volta si chiamava “tirare la cinghia” e anche “darsi una calmata” prima di sclerare. Oggi invece ci sono dei guru che ci spiegano come diventare il perfetto downshifter.

Basta sprechi, occhio alla spesa, ridurre la carne a favore di buone zuppe contadine, trovare un lavoro che piaccia anche se fa guadagnare di meno, anzi, meglio ancora, prendersi il famoso “anno sabbatico” e sperimentare attività artigianali e fare viaggi istruttivi facendo lavoretti manuali per mantenersi.

Cercare di sconnettersi, di non rincorrere l’ultimo modello tecnologico, limitare la televisione a favore della radio, avere tempo anziché denaro, noia anziché sovraccarico di impegni.

Bello.  Finché è una scelta. 
Quelle scelte che ti fanno sempre pensare che dietro c’è un bel gruzzolo che permette di farle. 

Questi finti contadini con i pantaloni di velluto e la giacca di tweed con le toppe scamosciate, che raccontano di come hanno recuperato le capre del Kashmir per fare sciarpe artigianali, o questi skipper che solcano i mari sulla loro barca a vela o catamarano di 18 metri minimo che hanno vinto finalmente tutte le loro fastidiose allergie provocate dalla vita in città.

Oppure quelli che si sono ritirati a Pantelleria, nel loro dammuso da rivista di arredamento, e dicono di produrre biologicamente un po’ di passito e qualche cappero sotto sale, ché tanto gli basta. 
Poi gli abitanti di baite foderate di cirmolo che offrono gite in slitta tirata da rari cavalli bramantini o frisoni.

Infine ci sono gli altri: i veri downshifter.  
Quelli che da un bel pezzo hanno rinunciato all’ultimo modello di qualsiasi cosa, alle ferie e anche ai ristoranti.  
Quelli che invece dell’anno di aspettativa, hanno una remota aspettativa per un lavoro.   
Quelli che forse vorrebbero lavorare anche di meno, ma il mutuo, le rate e le bollette non chiedono il “gap year”, anzi.  

Come la mettiamo? 
Il caro vecchio buon senso potrebbe darci una mano. 
Cerchiamo almeno di non vivere al di sopra dei nostri mezzi, sia economici che fisici. 
Per il resto ognuno farà come riesce e come gli pare.
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4 commenti:

  1. brava... hai centrato il problema... con i mezzi economici è facile...anzi, piacevole... il dfficile è "scalare la marcia" quando si è costretti dagi eventi...

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  2. Si.. chi può permetterselo lo fa perchè "è figo" 8scusa il termine".. ma io che passo davanti alle vetrine dei ristoranti e non ricordo l'ultima volta che ci sono stata senza sentirlo come evento eccezionale e senza la preoccupazione di dire "ok, ce lo siamo concesso ma poi mangiamo pane e cipolla per il resto del mese"... io mi sento solo "down" e basta. Non è questione di consumismo... è questione di serenità! Altro che anno sabbatico... chi ci sta un anno senza stipendio?Quelli con la giacca di tweed...

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  3. Io ho downshiftato per scelta,sono passata part-time e ne sono superfelice,ma me lo potevo permettere,non avendo mutui nè figli da mantenere e convivendo stabilmente;sono d'accordo con te però che questi "guru del downshifting" sono spesso persone danarose che hanno molta facilità a "prendersi un anno",tanto non hanno preoccupazioni di conti da pagare o di ritrovare un lavoro velocemente passato "l'anno sabbatico"(mamma mia quante virgolette!).Voglio vedere una persona qualunque,magari che non ha + vent'anni,che lavoro trova dopo essersi presa la sfiziopausa.Mah!

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